L’effetto Lucifero e il confine tra bene e male

I fatti di cronaca più recenti sembrano descrivere un aumento esponenziale di persone che, in modo apparentemente improvviso e inaspettato, mettono in atto condotte gravemente antisociali e devianti, in tantissimi casi in situazioni di gruppo, in cui la singola persona sembra aver perso completamente di vista l’etica e la morale.
L’effetto Lucifero e il confine tra bene e male

I fatti di cronaca più recenti sembrano descrivere un aumento esponenziale di persone che, in modo apparentemente improvviso e inaspettato, mettono in atto condotte gravemente antisociali e devianti, in tantissimi casi in situazioni di gruppo, in cui la singola persona sembra aver perso completamente di vista l’etica e la morale.

Spesso l’influenzamento negativo esercitato dal gruppo di appartenenza e l’ambiente in cui si vive, infatti, possono aumentare la propensione delle persone a compiere azioni deplorevoli, ancora di più se persone conosciute hanno commesso atti simili e se ci sono alte probabilità di restare impuniti.

Le dinamiche di potere esercitate all’interno del gruppo di appartenenza, i ruoli ricoperti e il sistema di aspettative presente nel contesto sociale di appartenenza, inoltre, possono spingere persone, tendenzialmente tranquille e orientate a comportamenti positivi, a scelte e azioni inaspettate e in netto contrasto con la propria morale e le proprie predisposizioni personali, riducendo così il senso di responsabilità personale a favore di una responsabilità di gruppo diffusa.

Tale fenomeno è noto come effetto Lucifero ed è stato spiegato in psicologia sociale da Philip George Zimbardo, in seguito ai risultati di una ricerca scientifica condotta negli Stati Uniti nel lontano 1971. Prima dell’avvio dell’esperimento vennero esclusi i partecipanti con problemi psicologici, malattie o precedenti condotte criminali o devianti.

L’esperimento carcerario di Stanford, questo il nome con cui ancora oggi tale studio viene ricordato, coinvolse un gruppo di studenti universitari a cui fu chiesto di vivere per due settimane in una situazione di carcere simulato e di “calarsi” nel ruolo di guardia o detenuto.

In brevissimo tempo gli studenti coinvolti, prima dell’avvio dell’esperimento equilibrati e tranquilli, si identificarono a tal punto con il ruolo ricoperto da dimenticare del tutto la natura simulata della situazione e mettere in atto azioni in netto contrasto con la propria condotta abituale. 

La sperimentazione, che sarebbe dovuta durare quattordici giorni, venne interrotta dopo sei giorni per la gravità delle condotte messe in atto dagli studenti assegnati casualmente alla categoria dei carcerieri: col trascorrere dei giorni, infatti, i detenuti divennero sempre più dipendenti e sottomessi, mentre le guardie, condizionate da processi di forte deindividuazione, diventarono sempre più sadiche e violente nei confronti dei prigionieri.

I risultati di questo controverso e contestatissimo esperimento ci ricordano che la distinzione tra bene e male, che solitamente nella nostra società consideriamo chiara e invalicabile, quindi, è molto più permeabile di quello che si pensi. Certi avvenimenti, ampiamente descritti dalla cronaca nera con dettagli accurati che potrebbero e dovrebbero essere evitati, non sono in assoluto disumani o mostruosi, bensì espressione delle potenzialità comportamentali di ciascuno e, quindi, una responsabilità sociale che riguarda tutti.

Uno spazio futuro, quindi, deve essere dedicato alla promozione di una cultura della relazione che tenga conto dei fattori individuali e delle dinamiche sociali che possono portare, insieme ad altri, alla messa in atto di comportamenti devianti e criminali. Se c’è maggiore educazione e consapevolezza sul potere e l’influenza che le variabili situazionali e di gruppo possono avere sul comportamento umano, maggiori possono diventare le possibilità di aumentare la capacità delle persone di evitare e impedire che tali situazioni di rischio si verifichino.

Elisabetta Boeddu

Psicologa e Psicoterapeuta

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