Noi italiani amiamo la cronaca ma trascuriamo le notizie
Lo sanno bene i giornalisti, che spesso ne abusano, e lo verificano quotidianamente i fruitori dell’informazione, che ne diventano dipendenti fino a seguire in tv pessime storie di sangue & sesso: la cronaca è la notizia, ne costituisce il fondamento e sovente diviene la ragion d’essere della notizia stessa. Tuttavia non completa la notizia, poiché quest’ultima – cioè ogni realtà umana valutabile come notizia – è formata da cronaca e qualcos’altro. Molto altro. Pur se non c’è dubbio che proprio il racconto cronachistico costituisca l’elemento essenziale del fatto-notizia, la divulgazione giornalistica è, in concreto, una sorta di preparato galenico in cui i singoli elementi si fondono in un rapporto di costante compensazione. Tale necessaria mescolanza appare però sempre meno presente, tanto più in questo frangente storico dominato dall’informazione online che tutto semplifica e tutto massimizza, con conseguenti effetti deleteri sulla qualità complessiva dell’offerta informativa. Inutile ricordare come la gestione diretta del rapporto tra cronaca e notizia spetti al giornalista, il quale è chiamato – quasi imitando il farmacista – a mettere in pratica le proprie capacità alchemiche e interpretative allo scopo di garantire all’utente informazioni accertate, chiare e collegate.
Un caso esemplare
La vicenda-Cecilia Sala, il recente ritorno a casa della giornalista italiana rapita in Iran, è illuminante – sul piano della pura tecnica giornalistica – della tensione presente tra cronaca e notizia, una miscela sempre in ebollizione. Prima Comunicazione’, pubblicazione-vangelo del giornalismo, riporta i dati di Mediamonitor.it, piattaforma che sfrutta tecnologie sviluppate da Cedar 85, il cui monitoraggio mette in evidenza come nei giorni caldi del rapimento, a cavallo della liberazione, il nome di Cecilia Sala sia stato presente negli organi di informazione nazionali e locali, ricomprendendo in tale contesto giornali cartacei, siti online, tv, radio e quant’altro, con una frequenza mai riscontrata prima in Italia per qualsiasi altro avvenimento. Il dato rilevato è impressionante: ogni dodici secondi il nome della Sala è stato letto, scritto, pronunciato e comunque diffuso da una testata giornalistica al grande pubblico dei fruitori delle notizie. In questa vicenda, dunque, l’elemento-cronaca, cioè il racconto delle ore immediatamente precedenti alla positiva soluzione, della ritrovata libertà e delle fasi successive, fino al rientro in aereo sul suolo nazionale e all’abbraccio mediatico con il fidanzato in attesa a Ciampino, sembra aver occupato totalmente lo spazio della notizia. E così è stato, in effetti, seppure un simile strapotere della componente cronachistica non abbia affatto esaurito i termini strutturali della notizia. Dopo 24 ore dalla sua liberazione, infatti, il nome della Sala è nettamente calato nella frequenza delle notizie nazionali, dopo 48 ore è addirittura sparito dal radar dell’informazione italiana, anche perché la vicenda non ha provocato – come accaduto per altri ostaggi italiani liberati in passato – ulteriori polemiche politiche degne di essere menzionate in tg o nelle cronache dei quotidiani. Trascorsi due giorni dalla liberazione i palinsesti davano il nome di Cecilia Sala non più in apertura ma nel corpo del notiziario, in alcuni casi addirittura ignorando ulteriori risvolti e quindi non fornendo affatto successive informazioni.
Ma dov’è la notizia?
In realtà l’interesse pubblico sulla vicenda-Sala sarebbe dovuto divampare, di fatto, proprio nella fase post cronaca, quando i riflettori delle notizie, ormai spenti sul dettagliato racconto della liberazione, avrebbero dovuto ‘illuminare’ ciò che la giornalista aveva raccontato nell’interrogatorio davanti ai carabinieri, quanto era accaduto sul piano politico-strategico negli States durante l’irrituale incontro Meloni-Trump e quale ruolo avevano giocato l’arresto e la successiva scarcerazione dell’ingegnere iraniano esperto in droni, professionista dapprima richiesto attraverso la ventilata estradizione e poi quasi dimenticato dalle autorità Usa che lo accusavano di concorso nella morte di alcuni propri militari. Invece la ridondante cronaca della liberazione di Cecilia aveva nel frattempo riempito di clamore lo spazio ontologico della notizia, senza tuttavia completare la notizia stessa. Lasciandola zoppa, spostando i termini della questione e facendo permanere pesanti interrogativi sospesi. Interrogativi che resteranno tali, secondo le pessime abitudini del giornalismo nostrano.
Di chi la colpa?
Dei giornalisti certo, ma non solo. I direttori di testata inseguono il trend delle news e sorreggono il timone di una barchetta derelitta che, nel fiume burrascoso, viaggia verso il mare del conformismo informativo. Lo fanno tutti, perché è in quelle acque che il giornalismo italiano confluisce e viene giudicato. L’informazione nazionale è legata a doppio filo alla società italiana, il giornalismo riflette la mentalità comune. Da noi non c’è mai stato un caso-Watergate, non abbiamo mai costretto, con la sola forza della stampa, un presidente sotto impeachment. Ci siamo andati vicino, vedi la vicenda presidente Leone-scandalo Lockheed negli anni ’70 del Novecento, ma era un’altra Italia. E soprattutto era un altro giornalismo. A quei tempi i cronisti potevano contare sulla vicinanza morale degli italiani, mentre oggi ciascun operatore dell’informazione avverte sulla propria pelle il peso di essere considerato un nemico pubblico. Saranno poi i vertici professionali della categoria a spiegarci come e perché ciò sia potuto accadere, giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi increduli. C’è poi la responsabilità diretta dei fruitori dell’informazione, il pubblico che riceve le notizie, assuefatto alla cronaca e lontano, sempre più lontano da un concreto approfondimento delle stesse: gli indici statistici sul gradimento informativo mostrano infatti il progressivo crollo di interesse collettivo dal racconto della liberazione in poi.
Cosa ci dice questa vicenda?
Ci dice molto, moltissimo. Ci descrive l’estemporaneità del giornalismo italiano attuale, schiacciato dal frenetico rincorrersi delle notizie. Bravo è chi le fornisce tutte, non colui che riesce a fornirle complete e accertate. Ci dice – constatazione assai preoccupante – di un pubblico delle news, e quindi di un popolo, che non si interroga più rispetto a cosa ci sia dietro un accadimento, cioè sotto il livello della superficie conosciuta o fatta volutamente conoscere. Ci dice dell’avvento di un giornalismo del momento, dell’immagine e dell’effetto (gli abbracci in aeroporto, la foto con il politico di turno, la dichiarazione della mamma e via e via) che non concede alcuna possibilità operativa non tanto al giornalismo d’inchiesta, entità da tempo sparita o al massimo sostituita da una televisiva versione salottiera, quanto alla completezza dell’informazione nel senso classico dell’accezione. Andiamo avanti di ora in ora con notizie smozzicate quanto clamorose, che si inseguono una dopo l’altra e che non trovano mai o quasi mai compimento: l’immediatezza del web conquista il campo fino ad annebbiare la riflessione, fino a mettere in ginocchio l’analisi, fino a imborghesire l’inchiesta. Ma non c’è neanche il tempo di interrogarci su tutto questo, perché nel frattempo sopraggiunge una nuova notizia…
Roberto Conticelli
Ha lavorato per la Nazione di Firenze in Umbria e in Toscana ed è stato presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Umbria. Insegna alla Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia ed ha conseguito riconoscimenti giornalistici di carattere nazionale